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Tracey Emin: The bad girl of British art

21/08/2024

“Yes, art changed my world. And without art, I am one hundred per cent sure I would be dead.”

 

Tracey Emin una delle artiste più influenti del nostro tempo, figura provocatoria e dissacrante.

Nata a Londra nel 1963, passa la sua adolescenza a Margate, nel Kent. È da questo momento che la sua personalità artistica sboccia, i traumi e gli abusi subiti durante questa permanenza nel Kent saranno fondamentali e spesso ripresi nella sua produzione artistica.

Dopo essersi diplomata al Maidstone College of Art in belle arti, passa in seguito al Royal College of Art di Londra, conseguendo il diploma di laurea magistrale in pittura. È proprio a Londra, in questi anni, che inizia a frequentare Damien Hirst e Sarah Lucas, che solo in seguito avrebbero preso parte al gruppo degli YBA (Young British Artists); la stessa Emin entrerà a far parte del gruppo negli anni Novanta. Nel ’94 riesce ad ottenere la sua prima mostra personale presso la White Cube Gallery di Londra, intitolata My Major Retrospective, esponendo i suoi lavori e fotografie come se si trattasse di una mostra-archivio e dovesse essere l’ultima sua esposizione.

Proprio in questo periodo inizia a frequentare Carl Freedman, amico e collaboratore di Damien Hirst. È grazie a questa relazione che Tracey Emin inizia la sua produzione di opere più proficua e consistente.

Everyone I have ever slept with. Tracey Emin. 1963
Trecey Emin. Everyone I Have Ever Slept With 1963-1995. 1995

Nel 1995 Freedman cura una mostra intitolata Minky Manky, per la quale incoraggia Emin a produrre un lavoro più importante e iconico. Il risultato: Everyone I Have Ever Slept With 1963-1995Noto anche come The Tent, il lavoro è costituito da una tenda canadese da campeggio blu sulla quale l’artista ha ricamato a mano i 102 nomi di tutti quelli con cui ha condiviso il letto,

“Some I’d had a shag with in bed or against a wall; some I had just slept with, like my grandma. I used to lay in her bed and hold her hand. We used to listen to the radio together and nod off to sleep. You don’t do that with someone you don’t love and don’t care about.”

 

ci sono sì i nomi di tutti i suoi amanti e compagni (come Billy Childish e Roberto Navikas), ma anche quelli di sua madre, membri della sua famiglia, il fratello gemello, sono segnati anche i due feti persi.

Il lavoro fu inizialmente aspramente criticato, per il pubblico l’aver scritto i nomi delle persone sulla tenda sembrava voler ostentare e vantarsi delle innumerevoli conquiste, ma è importante evidenziare la scelta che ha fatto l’artista per il titolo, slept, “dormito”, ovvero il gesto del condividere il letto, un gesto intimo non solo a livello sessuale, ma anche in senso più ampio. Intimità accentuata dalle piccole dimensioni della tenda, percepibili entrandovi.

La tenda, mostrata aperta e con una luce interna accesa, rimanda all’infanzia di Tracey Emin, a un luogo in particolare, The Shell Grotto, a Margate, È una grotta di conchiglie, un passaggio sotterraneo decorato, a Margate. Quasi tutta la superficie delle pareti e del tetto è coperta da mosaici composti interamente da conchiglie.

Il lavoro prende vita durante il periodo di frequentazione con Carl Freedman; a quel tempo Emin non era ancora famosa, era conosciuta solo nei circoli artistici.

“At that time Sarah [Lucas] was quite famous, but I wasn’t at all. Carl said to me that I should make some big work as he thought the small-scale stuff I was doing at the time wouldn’t stand up well. I was furious. Making that work was my way at getting back at him. One review was really funny, the journalist had written something like ‘She’s slept with everyone—even the curator’!”

 

Inizialmente l’artista si rifiutò di vendere il lavoro a Charles Saatchi, poiché disapprovava il suo lavoro pubblicitario per Margaret Thatcher. Saatchi ne entrò in possesso comprandolo sul mercato secondario da un rivenditore privato, Eric Franck, al prezzo di 40.000 sterline. Emin, invece, l’aveva originariamente venduto per 12.000 sterline.

Saatchi ha esposto l’opera alla mostra Sensation presso la Royal Accademy nel 1997. Il lavoro è diventato iconico ed è appartenuto a Saatchi fino al 2004, anno in cui venne distrutto in un incendio in un magazzino Momart. Molte opere della collezione di Saatchi sono andate distrutte in quell’incendio. L’artista non ha mai voluto riprodurre l’opera.

Il critico d’arte Vincent Katz ha poi fatto notare che:

“Emin later turned down one million pounds (the insurance money) to re-create the piece. This refusal to mythologize her aesthetic past marks a distinction from the artist’s continual desire to recreate her biographical past.”

My Bed. Tracey Emin
Tracey Emin. My Bed. 1998

Infatti, Tracey Emin usa l’arte come veicolo catartico per la guarigione. La natura autobiografica del suo lavoro e il processo di creazione richiedono di non ripetere il processo, ma piuttosto di mantenere il lavoro in uno spazio dove può ancora funzionare come parte della sua vita passata un po’ come un ricordo.

Fino a questo momento Tracey Emin è ancora una sconosciuta agli occhi del pubblico inglese, ma presenziando ad un programma televisivo riguardante il Turner Prize, completamente ubriaca, dicendo parolacce davanti a una platea di accademici, diventa famosa grazie alla sua irriverenza, per la quale tutt’ora è nota nel mondo dell’arte.

La vita spesso è ironica, due anni dopo il programma è candidata, grazie al suo controverso lavoro My Bed, per l’assegnazione del Turner Prize, assegnato poi a Steve McQueen.

Creato nel 1998 ed esposto nel 1999 alla Tate Gallery in occasione della finale del Turner Prize, consiste in un letto disfatto. L’idea di My Bed è stata ispirata da una fase depressiva nella vita dell’artista quando rimase a letto per quattro giorni senza mangiare o bere nient’altro che alcol, dopo la fine di una relazione. Guardando il ripugnante pasticcio che si era accumulato nella sua stanza, improvvisamente si è resa conto di ciò che aveva creato.

“I got up and took a bath and looked at the bed and thought, ‘Christ, I made that’.”

 

L’opera ha generato un notevole furore mediatico, in particolare per il fatto che le lenzuola erano macchiate di secrezioni corporee e il pavimento aveva oggetti provenienti dalla stanza dell’artista, come preservativi, pacchetti di sigarette, pillole, biancheria intima con macchie di sangue mestruale e altri oggetti funzionali di uso quotidiano. È un’opera che rompe i tabù sulla sessualità, sul corpo femminile e sulla vergogna, è importante in quanto è un’artista donna che si espone contro il perbenismo della società inglese e la provoca. Emin, letteralmente, mette in mostra i suoi panni sporchi.

La critica e la stampa si sono divise, da un lato chi non ha considerato il lavoro nulla di straordinario o geniale, dall’altro chi ne ha rivisto il readymade duchampiano, il fare arte attraverso una selezione di oggetti comuni. È qui che si nota l’aspetto confessionale dell’arte di Tracey Emin, attraverso oggetti e situazioni (la depressione, in questo caso), che appartengono al vissuto personale dell’artista, ma che sono applicabili alla vita di chiunque.

Il lavoro di Emin si basa interamente sulle sue esperienze di vita: spesso con rimandi nostalgici alla sua famiglia e alla sua infanzia, alle relazioni (sentimentali e sessuali), al desiderio, ai dolori e ai traumi (aborti, abusi e stupro). La sua arte è intima, confessionale e autobiografica e allo stesso tempo universale: parlando della sua vita, si rivolge a tutti.

“I realised I was my work, I was the essence of my work – I always say that after I’m dead my work isn’t going to be half as good.” – Tracey Emin, The South Bank Show, 2001

Tracey Emin. The Mother. 2020

Tracey Emin ha prodotto un corpus di opere attraverso medium eterogenei, tra cui pittura, stampa, disegno, film, fotografia, installazioni, applicazioni, scultura in bronzo e scritte neon, oltre che una serie di testi Exploration Of The Soul (1994), sotto forma di flusso di coscienza, graffiante e informale, a volte con errori grammaticali.

Un’arte per certi versi femminista e femminile, anche per via dell’uso di medium, come il ricamo, associati comunemente a questo genere e simbolo di british ladylike, danno voce alle sue parole, spesso volgari; e dell’uso del suo corpo, messo in pose provocanti ed esposto al pubblico. È sfrontata e immediata, va contro le norme sociali inglesi, il suo lavoro sa essere però anche sarcastico e ironico.

I suoi maestri: i protagonisti dell’espressionismo, Munch portavoce delle lacerazioni dell’anima e della fragilità dell’esistenza umana.

“I fell in love with the paintings of Edvard Munch, because he made a painting called Jealousy that was about himself. I thought it was an incredibly open, self-effacing and defiant thing for a man in the early 20th century to do.” – Tracey Emin, The Independent, 2009.

 

Da Schiele riprende l’iconografia spigolosa e ridotta al minimo dei corpi nudi, scarni, essenziali, crudi e allo stesso tempo provocanti.

L’ultima delle sue opere, non la più iconica, ma la più matura e la più distante, a livello simbolico, dalla Emin punk e ribelle degli anni ’90 è The Mother.

L’opera in bronzo è del 2020, alta sette metri, posta di spalle di fronte al Munch Museum di Oslo, è rivolta verso il fiordo, in attesa della marea, invitando lo spettatore a guardare verso l’orizzonte, come una madre pronta ad accogliere.

Emin è stata affascinata per tutta la vita dall’arte di Edvard Munch: con quest’opera ha voluto donargli la madre che lui ha perso quando era piccolo. Con il titolo The Mother, infatti, fa riferimento a una figura protettrice e la scultura riporta alla mente i motivi onnipresenti delle donne e il nudo nell’opera di Munch.

L’ispirazione per l’opera viene da una statuetta in argilla che rappresenta un’anziana: Emin ha deciso di trasformare il manufatto in monumento, affascinata dalla possibilità di vedere i segni lasciati dalla lavorazione dell’argilla su una statua di materiale differente e di grandi dimensioni. Questo bronzeo colosso, anonimo, con le membra stanche e flosce, non è più corpo sensuale tracciato da linee impetuose; nonostante le sue dimensioni, sembra fragile e delicato, una madre, nuda inginocchiata su un bambino invisibile. Dalle fattezze morbide, appare vulnerabile, ma allo stesso tempo maestosa e grandiosa. 

Un’opera intima, che celebra la sensibilità femminile e matriarcale, legata alla maturità di Tracey Emin.

Eleonora Valietti QUAINT Art Magazine

Eleonora Valietti

Laureata in Antropologia presso l’Università di Bologna e in “Arte, Valorizzazione e Mercato” all’Università IULM di Milano, Eleonora ha diverse esperienze come mediatrice culturale e sogna di lavorare nell’ambito della didattica per l’arte. Si occupa per QUAINT Art Magazine della sezione inerente l’Arte Contemporanea.

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