La fotografia che ruba l’anima e il fotografo che la restituisce: l’arte di Sebastião Salgado
19/04/2024
Fotografare e condividere ciò che accade giornalmente nelle nostre vite ha acquisito un ruolo di crescente rilevanza nell’ultimo decennio. Come se la fotografia potesse dare maggior significato e valore alle nostre azioni, slegandone il ricordo dal tempo e imprimendolo per sempre nell’esistenza.
Eppure, ancora oggi, vi sono popoli indigeni dell’Africa, di alcune zone dell’India e del Nepal e tribù di nativi Americani, soprattutto dell’ Amazzonia, che non osano prestarsi ad alcun obiettivo in quanto una fotografia possederebbe, secondo le loro credenze, il potere di rubare l’anima. In verità, questo timore è rivolto verso tutti gli strumenti in grado di catturare l’immagine, come ad esempio gli specchi, poiché ogni riflesso conserverebbe con sé una parte di spirito, consumandolo.
Ne consegue che la documentazione di queste ataviche popolazioni sia perciò difficile, scarsa, se non addirittura nulla.
Inoltre, avvicinarsi ad esse è divenuto estremamente complicato a causa dell’attuale, critico, scenario ecologico: l’uomo moderno si è reso tanto predatore quanto preda nei rapidi cambiamenti climatici che le sue scelte aggressive nei confronti dell’ambiente hanno innestato, ben lungi da un’idea di progresso, e che minacciano gravemente queste realtà. Le uniche in cui gli individui abitano ancora nel mondo, connessi ad esso.
In particolare, a correre un grande rischio sono gli aborigeni dell’Amazzonia. Schiacciati dalle lobby dell’agro-business – protette e spalleggiate da un governo preoccupato unicamente degli interessi economici – stanno sacrificando ettari di foresta in favore della produzione di soia, zucchero, caffè, arance; per allevare bovini e suini, della cui carne sono i primi esportatori al mondo, impattando in modo tragicamente negativo flora e fauna locali e costringendo le tribù che vi risiedono a difendersi, nonostante la disparità delle armi, oppure a fuggire dalla loro stessa terra.
Sempre più diffidenti all’idea di un contatto con l’esterno, essi seguitano, nonostante gli incombenti pericoli, a custodire con devozione un’intimità in equilibrio con la natura, che scorre parallela e inaccessibile agli occhi distanti e superficiali della nostra frenetica società.
Affinché possiamo apprendere da essi, il celebre fotografo Sebastião Salgado ci offre il suo sguardo.
Nato in Brasile l’8 febbraio 1944, Sebastião Salgado si dimostra sin da subito brillante negli studi, conseguendo la laurea in economia e affacciandosi ben presto ad una promettente carriera nel Ministero Delle Finanze.
Ma il futuro gli riserva invece qualcosa di diverso: nel 1964 si instaura al governo un’aspra dittatura militare, evento che lo porterà ad entrare a far parte dei militanti di sinistra e, di lì a poco, a lasciare quindi a malincuore il proprio paese. È durante questo arduo periodo che incontra la sua compagna di vita, Lélia Wanick Salgado, la quale avrà il merito di introdurlo alla sua vocazione e la quale tutt’oggi collabora con passione ai suoi lavori.
Con lei, nel 1969 raggiunge l’Europa, prima Parigi, poi Londra, lavorando per l’Organizzazione Internazionale Del Caffè; arrivano così i primi incarichi in qualità di fotoreporter, per lui che non aveva mai impugnato una macchinetta fotografica prima di allora. Comprese, come raccontato in una lunga intervista del 2023 al Corriere Della Sera, che, sebbene non fosse più giovane, sarebbe ancora potuto essere un giovane fotografo.
La prima destinazione è l’Africa, per un viaggio di tre anni durante il quale racconterà la siccità nel Sahel.
Ad oggi, questo continente rappresenta ancora per Salgado il primo posto da fotografare, dai suoi cieli alla sua gente, così affine al Brasile che lo ha cresciuto, vibrante d’energia seppure nella sovente durezza della sua quotidianità.
Questo sarà solo l’inizio dei molteplici, significativi progetti realizzati negli anni, tra i quali non possiamo evitare di menzionare: “La mano dell’uomo”, una raccolta fotografica che omaggia con lucida empatia lo spirito dei lavoratori e la resilienza dell’animo umano, con il fine di ispirarne una maggior comprensione; “Exodus”, la narrazione delle migrazioni avvenute alla fine del secolo scorso nel silenzio di un presente indifferente, un percorso attraverso quaranta paesi al quale il fotografo si è dedicato per sette anni, assistendo, non senza ripercussioni fisiche e psicologiche, a dolorose pagine della storia, come il genocidio in Ruanda; “Genesi”, un emozionante itinerario intrapreso nel 2003 e culminato dieci anni dopo in più di duecento fotografie in bianco e nero della commovente ricchezza che appartiene al nostro pianeta, dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska, fino ai deserti dell’America e dell’Africa, giungendo poi alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia, accompagnate da una severa riflessione sulla necessità di un cambiamento radicale del nostro stile di vita, non più sostenibile.
La sua formazione accademica esercita una fondamentale influenza sul suo peculiare modo di osservare e testimoniare il mondo attraverso l’obbiettivo: umano, intenso, al contempo assolutamente aderente alla realtà; il carattere così riconoscibile del suo stile lo qualifica ben presto come uno dei fotoreporter più rilevanti della scena.
Sebbene, come abbia spesso ribadito, la sua fotografia non sia di denuncia, egli si accosta alle storie spesso di disagio, di povertà e di conflitto, mosso da una sensibilità politica ed etica, restituendone la dignità e la gravità, riuscendo inoltre ad annullare qualsiasi traccia di ego o di ipocrisia: “Non sono spinto dall’idea di fare foto belle o di diventare famoso ma da un senso di responsabilità : io scrivo con la macchina fotografica, è la lingua che ho scelto per esprimermi e la fotografia è tutta la mia vita. Non penso troppo alla luce ed alla composizione, il mio stile è dentro di me e quella luce è quella del Brasile, quella che porto dentro di me da quando sono nato.” Spiega durante un’intervista al giornalista Mario Calabresi.
Salgado è inoltre attivamente partecipe del movimento che vorrebbe scuotere nella comunità mondiale: nel 1998 fonda, insieme a sua moglie, l’organizzazione “Istituto Terra”, offrendo la vasta area della proprietà di famiglia ad Aimores per la rivoluzionaria iniziativa che lo vede impegnato nella riforestazione della “Mata Atlantica”, grazie alla quale sono stati piantati fino ad ora più di tre milioni di alberi, si prevede quattro entro il 2027, dando nuova vita ad un ecosistema altrimenti perduto che oggi ospita 172 specie di uccelli e 33 di mammiferi, 293 specie di piante, 15 di rettili e 15 di anfibi , come illustrato ne “Il sale della Terra”, documentario del 2014, candidato agli Oscar, diretto da Wim Wenders in collaborazione con il figlio del fotoreporter Juliano Ribeiro Salgado.
Il forte legame con le sue radici e il grande rispetto con cui concepisce ed esercita la propria professione gli hanno infine valso l’opportunità di dar voce alla vita nell’Amazzonia più profonda, che esplora per sei anni, anche al fianco dei nativi.
La mostra Amazônia, inaugurata nel 2020, è un inno selvaggio al polmone della Terra, un’imperativa chiamata alla difesa della sua potenza vitale, dipinta in un vivido bianco e nero, quasi tridimensionale, mentre la composizione sonora dell’artista Jean-Michel Jarre ne intona il canto, fatto di versi, fruscii, fragore, invitando i visitatori ad immergersi nell’autentica bellezza espressa dai paesaggi raffigurati. Soggetto centrale dell’esposizione sono i dodici popoli indigeni che Salgado ha potuto immortalare nel corso della sua esperienza, fra i quali figurano gli Awà.
Gli Awà sono protagonisti, inoltre, di un precedente lavoro del fotografo eseguito in collaborazione con Survival International, volto a sollecitare il Ministro della Giustizia brasiliano alla protezione della terra natale della tribù, ormai sull’orlo dell’estinzione. Si stima che vi siano ancora un centinaio di Awà della foresta pluviale che non abbiano mai avuto alcuna interazione con estranei, rimasti tra gli ultimi popoli incontattati del pianeta.
I ritratti e i video che arricchiscono l’allestimento ci guidano, sulle note del compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos e del musicista brasiliano Rodolfo Stroeter, all’interno di questo antico universo, la cui eco ci raggiunge e ci coinvolge mediante le parole dei capi tribù intervistati dal fotografo. Divulgando l’esortazione alla tutela della biodiversità della foresta amazzonica, Salgado ci parla di noi:” Io e mia moglie Lélia stiamo portando in Europa le mie fotografie e la musica di Villa-Lobos per impedire all’Occidente di guardare dall’altra parte: l’Amazzonia riguarda tutti.”.
L’artista, con le sue eloquenti immagini provenienti dai più remoti e magnifici angoli della Terra, ci insegna a vedere, per contribuire a questo decisivo cambiamento, ad aprire gli occhi sul nostro fragile presente, carente di verde e di futuro, perché il primo passo di domani possa essere un passo indietro.
“Amazonia” è in esposizione dal 29 febbraio al 13 ottobre presso il Salone Degli Incanti di Trieste, mentre il Palazzo Ducale di Genova ospita dal 22 marzo al 14 luglio “Aqua Mater”, una raccolta di quaranta opere del fotografo a proposito dell’unicità di questo elemento, presentato qui in tutta la sua purezza, forza, abbondanza o scarsità.
In conclusione, se è vero che la fotografia possa rubare l’anima di queste preziose realtà incontaminate, Sebastião Salgado ci mostra come sia invece possibile restituirla in ogni scatto, con coraggio, umiltà e meraviglia.
Laureanda in Lingue e Letterature Straniere all’Università La Sapienza di Roma. Monica persegue la sua passione per la scrittura e la Fashion Industry occupandosi su QUAINT Art Magazine della sezione Arte & Moda.
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