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Milano Design Film Festival: uno spunto di riflessione su architettura e design

19/04/2024

Nel capoluogo lombardo, dal 6 al 10 marzo 2024 si è tenuto il Milano Design Film Festival. Più precisamente, tutte le proiezioni e gli incontri sono avvenuti all’interno delle suggestive sale dello storico Palazzo del Cinema Anteo, in Piazza 25 Aprile.

Milano Design Film Festival viene presentato come una vera e propria “piattaforma culturale” che “avvicina il grande pubblico alle concezioni più contemporanee del design e dell’architettura” tramite il linguaggio filmico. Durante il festival, infatti, sono stati presentati ben più di 30 titoli, i quali spaziavano tra film, corti, e documentari.

La peculiarità del festival si può proprio riassumere nella sua mission esplicita. Quella più chiara e riscontrabile è, come afferma la stessa rassegna stampa, avvicinare il grande pubblico all’architettura e al design.

Infatti, non solo tra i non cultori dell’arte, ma anche tra gli appassionati più accaniti, molto spesso si sorvola sul crearsi una cultura e approfondire le proprie conoscenze riguardanti architettura e design. Le motivazioni che coesistono possono essere molteplici: si tratta di ambiti estremamente legati alla tecnica – dunque che possono risultare alquanto oscuri ad un occhio più abituato alle discipline umanistiche – o, addirittura, sono considerate arti minori, più vicine all’artigianato che all’arte vera e propria.

Entrambe le motivazioni, per quanto comprensibili ed eventualmente condivisibili, sono legate ad uno specifico bias che si ha nei confronti di architettura e design. Un qualcosa, dunque, che non possiede basi oggettive e dimostrabili, ma è più legato ad una percezione diffusa e superficiale di queste discipline.

Questa percezione è stata sempre abbastanza diffusa, sin dall’antichità. Basarsi su una semplice credenza abitudinaria sarebbe però errato. Necessario è in questi casi provare a fare uno sforzo maggiore, sia immaginativo che al tempo stesso razionale. Perché dovremmo credere che discipline quali architettura e design siano da considerare forme espressive minori – o addirittura non dovrebbero essere considerate proprio tali?
Non si procederà a ripetere ciò che abbiamo affrontato poche righe sopra, ma è meglio ricordarlo: appoggiarsi sugli allori di ciò che già conosciamo non è mai una buona idea. Anzi, potrebbe essere più sintomo di pigrizia intellettuale.

Ma allora il mezzo filmico è stato utilizzato per pura necessità nel contesto del festival? 

 

In realtà no: esistono numerosi punti di contatto tra film, design e architettura.

Innanzitutto si potrebbe arrivare ad affermare che, in un certo qual modo, ogni film è una sorta di edificio, con una propria architettura. Si tratta di un prodotto che comprende molteplici tecniche e racchiude in sé più forme espressive. Proprio come un edificio, è composto non solo da una struttura interna portante, ma anche da sovrastrutture e ornamenti, decorazioni. Potremmo paragonare una pellicola a ciò che nel periodo secessionista veniva definito come gesamtkunstwerk, o opera d’arte totale. Si tratta di un termine di retaggio Wagneriano, anche se il compositore lo utilizzava per indicare il teatro musicale come la perfetta sintesi di tutte le arti. Nel periodo dell’Art Nouveau, invece, questa espressione inizia ad essere applicata all’operato degli architetti.

Un film, dunque, può a modo suo essere considerato come gesamtkunstwerk, sintetizzando più forme espressive in un’unica opera.

Se vogliamo andare ancora più a fondo, potremmo dire la stessa cosa delle inquadrature che compongono una pellicola. Ogni inquadratura ha una sua specifica architettura, la quale segue precise proporzioni e forme che molto spesso hanno anche un alto valore simbolico.

Un ulteriore passo che si può compiere è la considerazione della dignità artistica del design. Uno step forse ancora più difficoltoso di quello che concerne l’architettura. Questo perché il design è, fondamentalmente, legato a doppio filo alla produzione industriale. Eppure, non si può sintetizzare il tutto alla mera “riproducibilità tecnica” di cui trattava Walter Benjamin.

In correlazione alla Storia del Cinema, il design ha al momento un ruolo preponderante su più livelli: il primo, più evidente, è il design esterno, quello dei costumi, del set, e dei props. Il secondo, più specifico e che può riguardare in particolare i già menzionati props, riguarda l’inserimento di vere e proprie opere di design all’interno di un film.

Per citare un esempio su tutti si potrebbe fare riferimento all’”Arancia Meccanica” del grande regista americano Stanley Kubrick, uscito nelle sale nel 1971. L’estetica del film è un puro concentrato di Pop Art, espressa soprattutto nel set design.

Tra i set utilizzati, indimenticabili sono il Korova Milk Bar e, soprattutto, la Skybreak House, o Jaffe House. Quest’ultima è una villa che è stata progettata dal grande architetto e designer britannico Sir Norman Robert Foster. Il progetto risale al 1965 e si trova a Radlett, nel Regno Unito.

Si tratta di una vera e propria villa-labirinto, creata appositamente con lo scopo di suscitare nello spettatore un senso di disorientamento e claustrofobia.

Questa breve e non abbastanza approfondita analisi desidera essere uno spunto di riflessione. Oramai è presente e radicata nel panorama artistico contemporaneo il desiderio di mostrare come l’architettura e il design siano diventati strumenti imprescindibili e utili alla creazione di un immaginario spettatoriale, in grado di rimanere nella storia delle rappresentazioni e nella memoria dei fruitori.

Laureanda in Communication and New Media for Creative Industries all’Università degli Studi di Parma. Martina scrive per diverse testate online e si occupa per QUAINT Art Magazine della sezione Arte & Cinema.

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