Tra arte e psiche: Sigmund Freud e Anselm Kiefer a confronto
18/03/2024
Il rapporto tra psicoanalisi e arte ha rappresentato un campo di studio ricco e complesso nel corso del tempo.
La psicoanalisi, fondata da Sigmund Freud alla fine del XIX secolo, si è interessata all’arte sin dalle sue origini, vedendo in essa non solo un oggetto di studio, ma anche un terreno fertile per l’esplorazione delle profondità dell’essere umano.
Questa relazione reciproca si è sviluppata attraverso molteplici sfaccettature: dall’analisi dei processi creativi, all’interpretazione delle opere d’arte alla luce della biografia degli artisti, fino allo studio del ruolo dell’arte nell’esperienza estetica individuale e collettiva.
Allo stesso modo, l’arte ha guardato alla psicoanalisi come ispirazione e guida.
Salvador Dalí, René Magritte e Max Ernst, appartenenti alla corrente del Surrealismo, hanno attinto all’inconscio e ai sogni per creare opere enigmatiche e oniriche; Espressionisti come Edvard Munch e Egon Schiele, hanno dato voce all’angoscia esistenziale e al dolore psicologico attraverso immagini intense e vibranti. Nel campo dell’arte contemporanea, Louise Bourgeois, Cindy Sherman e Tracey Emin hanno esplorato temi legati alla sessualità, all’identità e alla psiche umana, spesso utilizzando tecniche di auto-rappresentazione e introspezione simili a quelle psicoanalitiche.
Alla luce del rapporto inscindibile tra psicoanalisi e arte, in questo articolo si cercherà di indagare l’opera dell’artista contemporaneo Anselm Kiefer da una prospettiva multidisciplinare, che si avvale di alcune teorie e riflessioni del padre della psicoanalisi, Sigmund Freud.
Le radici dell’ispirazione creativa: l’infanzia e il gioco
Nel saggio Il poeta e la fantasia (1907), Sigmund Freud indaga sulle radici dell’ispirazione creativa: si chiede dove il poeta tragga la sua ispirazione, la sua forza, riuscendo con le sue opere a suscitare nel lettore sentimenti inaspettati.
Freud sostiene che le prime tracce dell’attività poetica e creativa possano essere rintracciate nel gioco del bambino che, divertendosi ma con estrema serietà, costruisce un suo mondo, “dà un nuovo assetto alle cose del mondo”.
Il bambino, come il poeta – come l’artista – creerebbe un suo mondo di fantasia che, tuttavia, prenderebbe molto sul serio e caricherebbe di energie affettive.
È curioso notare, sulla scia del pensiero freudiano, come la prima traccia dell’attività poetica di Anselm Kiefer si possa in effetti trovare nelle sue azioni da bambino.
Nato a sud della Germania nel 1945, all’interno del rifugio antiaereo dell’ospedale, nella notte in cui la sua casa venne bombardata, Anselm Kiefer nasce e cresce “in mezzo a cose che crollavano”. Racconta di aver vissuto la sua infanzia in una città ferita dai bombardamenti in cui, non avendo nient’altro, si divertiva a giocare tra le rovine: impilava detriti per formare piccole case a più piani, innalzava pericolanti edifici e dighe con mattoni sgretolati e cocci.
Kiefer, tra i tre e i cinque anni, creava il suo mondo, un mondo in cui ogni lusso era rimpiazzato da polvere e cenere, e a quel mondo infantile è rimasto fedele durante tutti questi anni.
Descritto da Vincenzo Trione, nel suo ultimo libro “Prologo Celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer”, come un “architetto meravigliosamente infantile”, i suoi palazzi più celebri, i Sette Palazzi Celesti esposti presso Pirelli Hangar Bicocca a Milano, ricordano costruzioni infantili in formato monumentale. Macerie accatastate a formare dimore sull’orlo del crollo.
Anselm Kiefer e Sigmund Freud: un dialogo sulla guerra
Anselm Kiefer, in tutte le sue opere, non smette di interrogarsi sul dramma della guerra. L’arte diventa un mezzo per confrontarsi con i traumi collettivi, esplorando la memoria del passato, il dolore e la sofferenza.
La brutalità della guerra non viene rappresentata in modo realistico ma attraverso simboli, metafore, richiami. L’uso di materiali grezzi e poco convenzionali come il piombo, la cenere, la terra, gli escrementi, conferiscono alle sue opere una qualità tattile e viscerale, evocando un senso di rovina, instabilità e decadenza.
Tuttavia l’arte di Kiefer non vuole essere solo una denuncia della guerra, ma anche e soprattutto un invito a non dimenticare. Le sue opere costringono a confrontarsi con la memoria collettiva e a riflettere sulle responsabilità del passato, diventando uno strumento per elaborare un lutto collettivo sovente rimosso dagli intellettuali tedeschi, metabolizzare le grandi tragedie del Novecento.
In questo, la sensibilità artistica di Anselm Kiefer, trova una profonda risonanza con le parole di Sigmund Freud in “L’interesse per la psicoanalisi” (1913).
L’artista, secondo Freud: “Persegue innanzitutto la propria liberazione e, comunicando la sua opera, la trasmette ad altri che soffrono degli stessi desideri trattenuti”. L’artista attraverso la sua arte, perseguirebbe una duplice liberazione: da un lato, libererebbe sé stesso dal peso del trauma, dall’altro, offrirebbe a chi fruisce delle sue opere la possibilità di confrontarsi con gli stessi “desideri trattenuti“, con la sofferenza e le paure legate alla guerra.
Le riflessioni di Freud sulla “liberazione” che l’artista ricerca attraverso la sua opera offrono una lente preziosa per leggere il lavoro di Kiefer: l’arte come processo di catarsi, modo per dare voce al dolore e alla sofferenza, per esorcizzare i demoni del passato e trovare sollievo dalla morsa del trauma.
Un artista meravigliosamente primitivo
Artista meravigliosamente primitivo, Anselm Kiefer mette in discussione il progressismo avanzato dalle avanguardie del Novecento – che auspicavano a un nuovo inizio, eliminando tutto ciò che era accaduto in precedenza – si fa voce di una temporalità dilatata, pone in relazione episodi lontani, frammenti provenienti da epoche diverse. Si fa testimone di “un altro mondo”.
Anche Sigmund Freud nomina l’esistenza di un “regno intermedio”: un regno costituito dall’arte, in cui la realtà che frusta i desideri si unisce al mondo della fantasia, che invece li appaga. Un mondo in cui “sono rimaste in vigore le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva”. Usando casualmente un aggettivo che, ancora una volta, ben potrebbe associarsi all’intera opera di Anselm Kiefer.
L’enigma e la monumentalità
Sigmund Freud, in un saggio dedicato al Mosè di Michelangelo del 1913, afferma: “Proprio alcune delle creazioni artistiche più meravigliose e travolgenti sono rimaste oscure alla nostra comprensione. Le ammiriamo, ci sentiamo sopraffatti dalla loro grandezza, ma non sappiamo dire che cosa rappresentino”.
Sono tante le opere di Kiefer che lasciano spiazzato l’osservatore, le opere in cui la titolazione, spesso narrativa o poetica, fornisce una indicazione di lettura, un suggerimento interpretativo in cui perdersi e ritrovare tracce del passato.
“Siamo sopraffatti dalla loro grandezza“. Una grandezza che, nel caso di Anselm Kiefer, diventa paradossale. Un monumentalismo fragile e precario. Mentre i monumenti classici erano finiti e chiusi, quelli di Kiefer sono cantieri in costruzione, che “annunciano la bellezza del fare in grande ma, al tempo stesso, ne svelano la fragilità (Vincenzo Trione)”
Laureata in “Arti, Spettacolo ed Eventi Culturali” all’Università IULM di Milano, si specializza in comunicazione per la cultura. Fondatrice di QUAINT Art Magazine nel 2024, si occupa trasversalmente di tutte le sezioni della rivista.
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